top of page

Il bestiario di Claudio Baglioni

Pochi cantautori hanno saputo scrivere un così alto numero di canzoni di successo come Claudio Baglioni: potrebbe essere una nota di merito (e in parte lo è senz’altro), senonché il successo del cantautore romano lo ha troppo spesso incatenato (almeno tra coloro che lo conoscono meno) all’idea del cantore dell’amore adolescenziale Uno dei limiti di questo successo è stato quello di aver messo in ombra, nonostante gli sforzi dello stesso Baglioni, un repertorio tutt’altro che riducibile al sentimentalismo, e semmai capace di illuminare territori poco battuti.


Nel 1990 pubblica un doppio album dal titolo sibillino “Oltre”, in cui il cantautore romano dà prova di notevoli capacità compositive, andando a rispolverare tecniche solitamente relegate ad ambiti musicali considerati più colti. Molti critici, a distanza di anni, hanno riconosciuto a questo album un significato centrale nella storia compositiva di Baglioni, ma pochi si sono accorti di un ulteriore elemento peculiare: la notevole presenza di animali. Si contano, citati in svariati modi, una cinquantina di riferimenti proprio a questi nostri “compagni di mondo”. Acciughe, pesci, falchi, vermi, colombe, draghi, serpenti, conigli, talpe, cani, cavalli, gironzolano liberamente tra i brani di questo concept album.


E l’aspetto veramente interessante da notare è come gli animali, in alcuni casi, non siano riducibili a presenze effimere, capaci tutt’al più di colorire qualche immagine, qualche metafora o qualche rima, ma si fanno presenza propulsiva e profonda.

Penso, in particolare, a “Io lui e la cana femmina” e alla “Piana dei cavalli bradi”, dove cani e cavalli sono lì per raccontarci cose molto serie.

La prima delle due racconta di un’improbabile “lei” (“Lei è un traccagna, culona invadente, rumorosa indolente, pallosa civetta, esagerata, benedetta, è sempre stata vergine”) e di uno strampalato “lui” (“Lui è un arcano signorino taciturno angoloso, un po’ fregnone incazzoso, barone bulletto sniffatore, benedetto e soffre il mal di macchina”): due tipi loschi, verrebbe da pensare, e apparentemente due soggetti poco raccomandabili. Qualche giornalista si è addirittura lanciato in analisi sociologiche interpretando questo brano come una feroce critica al degrado culturale italiano di quegli anni. Ma è proprio il caso di dire che ha preso lucciole per lanterne.


In realtà niente di tutto questo: quel “lui” e quella “lei” altro non sono che i due cani di Baglioni intenti a passeggiare (“quanti bastoni e sassi volati in aria, e dentro gli occhi pronti e via”) con lo stesso cantautore, in modo scansonato (“rincorse alleprate” suggerisce…) nelle strade notturne (probabilmente) di Roma. Nei versi successivi (nda: la parola versi è secondo i dettami dello stesso Baglioni da prendere alla lettera: “la canzone”, ci suggerisce infatti l’autore, “la si può anche abbaiare, non c’è nulla di male”), il cantante entra finalmente in scena “ce ne andiamo a spasso, felici nella coda, e il cuore suona da contrabbasso, e andiamo con la vita addosso e addosso a questa vita come a un osso da rosicchiare”.


L’espediente che è proposto in questa canzone è di fatto molto semplice: raccontare i cani come se fossero umani (giocando sul fatto che con i pronomi “lui” e “lei” solitamente ci si riferisce a dei soggetti umani) e descrivere sé stesso come se fosse un cane (“sarebbe meglio camminare carponi”). L’aspetto interessante in questo esperimento musicale è che il riferimento al cane non è di tipo allegorico, metaforico o astratto; a Baglioni interessa proprio il cane, nella sua diversità-somiglianza con noi umani. In altri termini è il soggetto-cane che anima la canzone, è il suo essere diverso e uguale a me a essere messo al centro dell’attenzione. Un racconto che è quindi profondamente zooantropologico e, in

questo senso, innovativo, anticipando di qualche anno gli argomenti più ardui che saranno al centro della ricerca di Roberto Marchesini) Curioso notare che anche da un punto di vista compositivo il brano propone una rappresentazione sonora dell’ibridazione strutturandosi attorno a continue melodie che vanno, per così dire, a zig zag (anche qua andando a sancire un elemento di assoluta novità nel panorama compositivo di Baglioni, più abituato e predisposto a melodie lunghe, ariose e lineari), descrivendo l’andatura un po’ strampalata dei protagonisti.

L’intuizione di Baglioni è stata semplicemente geniale, e rappresenta la vera e propria data zero della zooantropologia: raccontare il cane come se fosse un umano e raccontare l’umano come se fosse un cane. Insomma, l’identità è ibrida, contaminativa, dialogica.




Un altro brano contenuto in “Oltre”, che ha ben colto nel segno aspetti profondi del rapporto uomo animale, è rappresentato da “La piana dei cavalli bradi”, in cui questa volta si cerca una convergenza tra umani e cavalli, ma non tanto su un piano “concreto” (come proposto con “Io lui e la cana femmina”) quanto piuttosto morale-esistenziale. Pur essendo un animale da branco, ogni cavallo - suggerisce il brano - tiene acceso un lumicino di indomabilità, per cui ogni individuo non è riducibile all’assoggettamento della vita in gruppo e lo mostra con sussulti sussulti, slanci ribelli e inquieti: “com’è duro essere nuovi, avere un'altra storia” suggerisce infatti il pezzo.


E in questo, sembra suggerire il cantautore, sta forse una delle ragioni del grande successo dell’incontro uomo-cavallo, quando canta “e ad un certo punto andare, non dar più notizie, solo in compagnia di sé, e chiedere il permesso per essere te stesso”. Un senso di ribellione non ridotto a ricetta vincente e ideologica dallo stesso Baglioni, perché in fondo, fa notare, “i cavalli origliano quest’aria di impazienza a metà della speranza, io cambiai percorso e poi non ho più corso”.


E anche in questo brano Baglioni dimostra di essere soprattutto un musicista di spessore, affidando al brano un arrangiamento in cui ogni appassionato di cavalli può ritrovare l’incedere ritmico e regolare del galoppo negli accordi arpeggiati dalla chitarra, mentre in altri momenti si può riconoscere lo scalciare indomito attraverso degli accordi pieni sparsi e qua e là. Interessante, inoltre, notare la valenza quasi onomatopeica dell'incedere della batteria che, nel riproporre la corsa di un cavallo, sembra trascendere la dimensione puramente ritmica per farsi quasi disegno armonico. Una sinestesia (potremmo chiamarla così) sonora di notevole impatto.

Insomma, nel brano proposto ogni cavallo è assoggettato al gruppo e ribelle al tempo stesso. Esattamente come ogni essere umano: al di là e al di qua della propria cornice ontologica.


Che spasso era andarcene a spasso (terminava la canzone di Baglioni).


Passo. E chiudo.

bottom of page